Earth Day, Giorno della Terra

Scritto da il 22 aprile 2008

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Oggi, 22 aprile, si celebra l’Earth Day, il Giorno della Terra. L’evento, che quest’anno è incentrato sul tema “Emergenza clima”, ebbe origine il 22 aprile 1970 quando 20 milioni di cittadini americani, rispondendo a un appello lanciato dal senatore democratico Gaylord Nelson, si mobilitarono per una grande dimostrazione a favore della salvaguardia dell’ambiente. Oggi l’Earth Day è una manifestazione internazionale celebrata in 174 Paesi.

Vi riporto l’articolo pubblicato sul Messaggero di Sant’Antonio (dove troverete anche altri approfondimenti), una riflessione scritta per l’occasione da Mario Tozzi. Leggetela fino in fondo, ne vale la pena. E fatela leggere a chi continua a sostenere l’esigenza di più energia, magari prodotta con il nucleare: perchè queste “esigenze” sono molto spesso solo capricci e brutte abitudini:

«Quando il barbone Mustafà si è installato sotto casa mia ho avuto una reazione di rifiuto che definire razzista è dire poco: ho pensato che era sporco e incontrarlo era come finire in una fogna. In più aveva il viso quasi deformato (da un incidente d’auto, come ho saputo quando ho cominciato a parlargli), i capelli tutti attaccati e unti, la barba lunghissima e incrostata e camminava come se stesse costantemente per perdere l’equilibrio. Non contento di avere invaso il «mio» marciapiede, la notte la passava direttamente sul selciato, prima sopra alcuni cartoni trafugati dal supermercato vicino, poi su un materasso rimediato chissà come. Infine ha completato la costruzione della sua nicchia ecologica con una serie di sacchi di plastica in cui ha sistemato le sue cose, dividendo la zona notte dal soggiorno – il tutto sempre sul marciapiede – ben protetto dai dodici cassonetti che sono lì tutti in fila davanti al supermercato.

Per mesi ci siamo alzati insieme: io aprivo le persiane nel momento in cui – lì sotto – Mustafà riassettava la sua «camera» da letto, si pettinava guardandosi negli specchietti retrovisori delle moto parcheggiate e si lavava alla fontanella di fronte. Ho cominciato così a osservarlo, per cercare di vincere con la ragione quel sentimento di diffidenza che istintivamente mi aveva preso. Tutto il suo sistema energetico funzionava secondo natura, in più aveva imparato a usare gli scarti della società dei consumi e della sua tecnologia in maniera estremamente efficiente. La selezione e il recupero dei rifiuti erano il cardine del sistema, e non solo per le calorie da recuperare (per mangiare c’è sempre la Caritas). I cartoni non erano certo il materiale migliore quando pioveva, così li riservava alle giornate d’estate, quando comunque isolano dalle pietre di basalto fredde e umide di cui è composto il marciapiede. Durante le notti di pioggia un telo di plastica rigida faceva da strato inferiore sottostante il materasso, al di sopra del quale c’erano lui, le coperte che aveva rimediato e ancora una plastica più sottile a coprire il tutto, come in una piccola tenda al cui interno il calore del corpo non si disperdeva e permetteva di superare indenni anche qualche grado sotto zero. Pur non potendolo sapere, Mustafà sfruttava la proprietà che ha il nostro corpo di emettere radiazioni infrarosse, come sanno bene quegli alpinisti che passano notti in quota avvolti in un sottile fazzoletto di plastica metallizzata retroriflettente. Non l’ho mai sentito tossire né starnutire.

Sopravvivere al limite

Ho chiesto a Mustafà da dove venisse, così lui mi ha raccontato del Marocco, ma non quello delle città imperiali, piuttosto quello dell’Atlante e dell’interno o quello del deserto del Sahara occidentale. In molte regioni del subcontinente sahariano le case trogloditiche sono esempi perfetti di quello che, per millenni, gli umani che si trovano in condizioni limite hanno ideato e fatto per sopravvivere.
A Matmata, in Tunisia (nella foto in alto), come a Gharyan, in Libia, in Marocco come in Egitto, prima di tutto ci si nasconde sotto terra, dove non arrivano gli effetti torridi del ghibli – che può far salire le temperature fino a 50°C – e si rimane al fresco. Le case sono scavate nella sabbia e proteggono anche dal freddo vento invernale e dalle micidiali escursioni termiche (la temperatura di notte scende spesso sotto lo zero), in tutti i casi senza sfruttare alcuna forma di riscaldamento oltre al calore dei corpi. E delle cucine: a Ghadames – in una delle ultime oasi prima dell’immensità del deserto libico – ho pranzato in un’abitazione di tipo berbero che aveva le cucine disposte al piano superiore, collegate attraverso alcuni fori direttamente con l’esterno. In questo modo i vapori caldi uscivano con facilità (l’aria calda è meno densa e sfugge verso l’esterno) e il piano abitato sottostante restava più fresco, mentre d’inverno bastava tappare parzialmente i fori per non disperdere il calore della cottura dei cibi.

Attorno al soggiorno centrale si aprivano gli altri ambienti, comprese le camere da letto, ma nessuno aveva finestre: la luce penetrava solo dai fori del piano delle cucine. Un sistema di specchi opportunamente disposti permetteva alla luce del sole di illuminare soddisfacentemente l’interno; lo stesso accadeva la notte ponendo poche candele in punti strategici e godendo della loro suggestiva luce riflessa. I bagni erano al piano più basso, visto che nelle case di terra non sono consentite tubature (che scioglierebbero la sabbia), e gli scarichi restavano sotto la casa, dove – mescolati con la cenere delle palme bruciate, quando c’era bisogno, nei camini o per cucinare – non puzzavano e potevano essere riutilizzati per fertilizzare l’oasi. Una comunità intera di migliaia di abitanti ha resistito per generazioni al caldo micidiale del deserto libico e alle clamorose escursioni termiche senza elettricità e usando razionalmente le risorse naturali. Mustafà è figlio di quelle società e istintivamente si muove in modo da conservare energia e da usare intelligentemente le poche risorse a disposizione, mescolando l’antica sapienza delle sue genti con gli scarti del nostro progresso.

Alla ricerca della sobrietà

Lo guardo dalla finestra e penso a casa mia, dove sono riuscito a mettere in piedi un vero festival dello spreco: almeno dieci spie di stand-by accese perennemente, telefoni portatili continuamente in ricarica e ancora ricariche di lettori di cd, mp3, iPod, di computer portatili, di auricolari blue-tooth, di batterie per tutti gli usi. Un delirio di consumi che avrei avuto difficoltà anche solo a immaginare neanche vent’anni fa. E questi sono gli aspetti più eclatanti. Quante lampadine a incandescenza ho dentro casa e quante compatte a fluorescenza ? Qual è la potenza del mio aspirapolvere o quella del phon? Perché dovrei avere bisogno di un telefono che funziona solo se è attaccato alla corrente? A osservarle bene le nostre case di occidentali ricchi sono un monumento al paradosso energetico e non direi neppure che sono veramente tecnologicamente avanzate. Anche per rispetto di Mustafà, oggi ho preso alcuni provvedimenti, nemmeno tanto drastici, nell’intento di dimostrare a me stesso (e un po’ agli altri) che le abitazioni si possono cambiare a partire da subito.

Prima ho cominciato a sostituire le lampadine che si fulminavano, poi le ho cambiate quasi tutte: ci ha rimesso un po’ il design (quelle compatte a fluorescenza sono orrende), ma la durata è sei volte maggiore e permettono una notevole riduzione dei consumi; costano un po’ di più, ma la spesa si ammortizza in pochissimo tempo. L’efficienza di queste lampadine è di circa 80 lumen/Watt, mentre quelle a incandescenza arrivano al massimo a 14. Poi ho collegato tutti gli apparecchi che sono predisposti alla stessa fruizione a un’unica ciabatta con interruttore che spengo quando so di non usarli per almeno un paio d’ore. Per esempio il gruppo televisore-videoregistratore-vhs-lettore dvd-decoder digitale terrestre e satellitare. Oppure il gruppo computer-scanner-stampante-monitor. Mi sono reso conto che non ho mai usato il rasoio elettrico né il phon, senza perdere poi troppo tempo né rischiare la cervicale; ho ridotto la potenza dell’aspirapolvere e in cortile ho installato una lampada a luce fredda che si ricarica attraverso un micropannello solare e può restare accesa anche tutta la notte. Infine ho ridato indietro il blue-tooth, che tanto l’auricolare a filo basta, ripristinato il telefono a filo e mi ricordo sempre di spegnere la luce.
Dubito che Mustafà se ne sia accorto, ma io mi sento comunque un po’ più vicino a lui che non credo giudicherebbe neanche tanto efficiente quel mio microcosmo ordinato e pulito, ma sprecone oltre ogni misura».

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