Rossese di Dolceacqua Superiore 2011: la liquirizia esce dal bicchiere e scende in bocca, sembra quasi di avere il liquore calabrese nel bicchiere. Vendemmiato nel 2011, ma nel colore trovi già qualche riflesso di tramonto, o forse è solo la luce di casa che ti frega.

Alla liquirizia si affiancano le more e un ricordo di tabacco.

rossese_dringenberg

Una sola domanda: ma come fa a fargli fare 15° a Dolceacqua? Non lo sappiamo, ma il vino, prodotto da Maccario Dringenberg, non ha avuto timore di affrontare le polpette alla menta in carpione. Si, in carpione!

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Il titolo del post dice già tutto: il vino biodinamico è un prodotto diverso da quello biologico.

Voi lo sapevate?

Io ho sempre sentito associare i due aggettivi in un calderone unico, quasi fossero sinonimi. Ma dopo aver letto l’intervista di Giuseppe Ferrua, un produttore biodinamico, su TuttoGreen, ho capito che le due tecniche non sono assolutamente assimilabili.

Le differenze non sono nelle pratiche enologiche, il vino rimane un prodotto della fermentazione dell’uva, ma nelle scelte in agricoltura: un vino biodinamico è un vino ottenuto da uve da agricoltura biodinamica.

Cos’è l’agricoltura biodinamica? Ce lo spiega Ferrua: «Attraverso l’agricoltura biodinamica riteniamo si esprimano al meglio le nostre piante. Grazie ad un occhio attento alle influenze astrologiche sulle piante e sul terreno si lavora per rimettere questi nella giusta inter-connessione. In vigna, o meglio in tutta l’azienda, a partire da un uso limitato e rispettoso dei trattori, a pratiche di semina di sovesci, bandita la chimica dei fitofarmaci, facciamo in modo che si ristabiliscano le giuste connessioni fra il cielo ed il terreno.

Si usano dei preparati che innescano processi di formazione dell’humus (il 500) e stimolatori delle funzioni della luce e del calore (il 501). Invece di combattere le malattie inneschiamo meccanismi per creare salute, ribaltando la logica dell’agricoltura industriale moderna la quale è lontanissima dal riconoscere quale sia la giusta valenza di un alimento. Un cibo che non sia semplicemente una lista di componenti minerali più o meno complessi ma un complesso organico di correnti e di flussi energetici che, come possono essere buoni e idonei a mantenerci sani possono essere altrettanto concausa di danni irreversibili per l’organismo».

E nell’agricoltura biologica questo non capita? «Nell’agricoltura biologica si ritiene la pianta un organismo da nutrire attraverso Sali minerali che, seppure abbiamo origine organica, rappresentano una forma naturale di agricoltura convenzionale, si dimentica che il nutrimento della pianta è in prevalenza da energia di fonte cosmica e che esiste una stretta relazione fra il cosmo e le piante».

Quindi: «Un vino Biologico può certamente essere naturale al 100% se si intende naturale senza aggiunte o manipolazioni. Certamente se si ritiene naturale non semplicemente una questione di ingredienti ma un prodotto coltivato e ottenuto secondo processi in stretta connessione con la natura, allora non si può definire naturale».

Agricoltura biodinamica e agricoltura biologica sono state definite a livello normativo. Per il vino la discussione sugli standard è ancora aperta.

 

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Siete anche voi tra i consumatori di cialde per il caffè? Perchè le usate?

Perchè il caffè che “producono” è buono? Qualche volta si, tante volte no. Però sono sempre molto comode: pronte all’uso, veloci, ti garantiscono un prodotto dal gusto costante e non sporcano. Le usi e le butti.

Le butti…dove?

Non nell’organico, seppure contengano caffè, perchè c’è anche la plastica o altri materiali. Ma neanche nel riciclaggio della plastica, sempre per lo stesso motivo: contengono altro. Così finiscono nell’indifferenziato.

E inquinano. Tanto!

Tra l’altro, se provate ad aprirle come ho fatto io, vedrete che di materiale organico, che speriamo sia caffè, ce n’è solitamente ben poco: questo dovrebbe farci dubitare sull’effettiva bontà del prodotto finale.

Se anche voi vi siete posti il problema di come riciclare le cialde usate, vi farà piacere sapere che qualcosa si sta muovendo: «si è aperto un tavolo di discussione tra Associazione dei Comuni virtuosi, Centro di Ricerca Rifiuti Zero di Capannori, Innovation Center della Lavazza e Associazione Italiana Industrie Prodotti Alimentari settore del caffè.

La nascita di questo tavolo di lavoro ha come obiettivo quello di tracciare la strada ad una corretta gestione dello smaltimento delle cialde del caffè. La buona volontà delle parti interessate è senz’altro un buon punto di inizio, ma occorre fare in fretta, per porre rimedio ad una chiara falla nel sistema» (TuttoGreen).

Bisognerebbe ancora fare una distinzione: quelle realmente inquinanti sono le capsule, mentre le cialde, confezionate in carta, sono totalmente riciclabili nell’organico. Se, nell’attesa che il tavolo di discussione arrivi a qualche decisione utile, vogliamo iniziare a promuovere una buona pratica, iniziamo almeno ad abbandonare le capsule; magari dirigendoci verso cialde del Commercio Equo e Solidale.

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In abbinamento a: polpo con fagioli dell’occhio, bresaola, salame della cascina dell’Allaas, ‘nduja calabra, polenta di pignoletto rosso e giallo & merluzzo, spezzatino in bianco di pollo e maiale, torta 900.

Abbiamo bevuto:
– Refrain di 4000mètres vins d’altitude
– Chambave Muscat 2005 di La Crotta di Vegneron
– Verduno Pelaverga 2008 di Comm. G. B. Burlotto
– Barbaresco 2004 bric mentina di La Ca’ Növa
– Carema Riserva 2002 della Cantina dei produttori nebbiolo di Carema
– Moscato d’Asti 2010 di Cantina Sant’Evasio.

Per esattezza: il Carema è stato aperto un paio di ore prima ma presentata puzze non piacevoli. Perciò è stato solo assaggiato e rimandato al giorno dopo, quando si è presentato decisamente meglio.

Perchè ve lo scrivo? Sadico piacere!!!

 

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l’Unità negli spaghetti

scritto da il 15 marzo 2011

Se c’è qualcosa che riesce ad unire gli italiani è sicuramente la tavola.

E tra i tanti piatti che ci accomunano dalle Alpi allo Stretto, troviamo sicuramente gli spaghetti: una produzione che divenne industriale proprio negli anni del Risorgimento!

«C’è chi dice che li abbia portati dalla Cina Marco Polo e chi sostiene che in Sicilia li mangiassero già un secolo prima. Pare che Leonardo da Vinci avesse anche inventato una macchina per farli. Sta di fatto che il boom dell’industria delle paste alimentari secche si ha a cavallo dell’Unità d’Italia, quando da un lato se ne diffonde il consumo in tutto il Paese e dall’altro ci sono mugnai e negozianti che fanno il salto nella produzione industriale.

Tra i tanti nomi basti ricordare l’ingegnere Vincenzo Agnesi, che fonda il suo pastificio a Imperia nel 1824, Pietro Barilla, che apre il primo negozio a Parma nel 1877, o Filippo De Cecco che nel 1886 trasforma il molino di famiglia a Fara San Martino in Abruzzo.

Senza dimenticare ovviamente i pastai di Gragnano, piccolo centro alle porte di Napoli che si può ritenere a tutti gli effetti la vera capitale degli spaghetti. Il loro segreto dicono stia nell’acqua, altri sostengono che invece è nell’aria dove vengono essiccati (…)» (Rocco Moliterni).

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l’amaro del Risorgimento

scritto da il 14 marzo 2011

Non voglio entrare nelle polemiche tra chi ama e chi odia il Risorgimento, ma la storia del nostro Paese passa anche dalla tavola. O meglio, in questo caso, dal fine pasto…

«Nel 1845 a Milano Maria Scala, usando un ferro pulito (in dialetto fer net) per mescolare un infuso di erbe e spezie, inventa il Fernet. Lei lavora alla Branca e sposerà il titolare Bernardino Branca, dal loro matrimonio nasce il Fernet Branca. Nello stesso anno sempre Milano vede aprirsi vicino alla Scala (nel senso di teatro) il bar di Ausonio Ramazzotti, un farmacista intraprendente che già nel 1815 aveva inventato l’amaro Ramazzotti. Avrà tanto successo da riuscire a far bere Milano negli anni di Craxi.

A Sondrio, nel 1875, ancora un farmacista, Francesco Peloni, mettendo in infusione le erbe della Valtellina, dà vita all’amaro Braulio. A Caltanissetta, nel 1859, Salvatore Averna può ringraziare la Provvidenza e il suo buon cuore: è stato generoso verso i frati dell’abbazia di Santo Spirito (nomen omen) e questi gli regalano la formula di quello che diverrà il «gusto pieno della vita». A Pisticci in Basilicata sempre un farmacista inizia a vendere nel 1864 (sono gli anni duri del brigantaggio) l’amaro Lucano: «cosa vuoi di più dalla vita?».

Qualche anno dopo a Bologna il nobile Stanislao Cobianchi, in onore di Elena di Montenegro, lancia l’amaro Montenegro. Pare che il fernet si producesse anche alla Martini&Sola di Torino. Le cronache dell’epoca riferiscono che aiutò i torinesi a combattere il colera nel 1867. Non si sa se le sue qualità digestive li abbiano anche aiutati a mandar giù nel 1864 il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Un boccone certo più amaro del fernet» (di Rocco Moliterni).

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l’Agriforneria di Chiesanuova

scritto da il 21 febbraio 2011

Si presentano così: «Tutto inizia nel 2000, quando decidemmo di “abbandonare” la città (Torino), un lavoro sicuro e ben retribuito, per intraprendere una nuova attività agricola certificata BIO, acquistando un “rudere” a Chiesanuova (TO).

Abbiamo superato enormi difficoltà: grandinate, venti impetuosi, fauna selvatica, lungaggini burocratiche…ma abbiamo saputo resistere e crederci in questi 10 anni.
Sono occorsi molti sacrifici ma ora ci siamo!

L’agriforneria è un piccolo laboratorio di panificazione sito in Chiesanuova (TO).
Viene gestito direttamente dai titolari, Veronica, Rocco e Raffaele, rispettivamente moglie, marito e cognato.
Tutti partecipano direttamente alla creazione degli impasti che poi daranno vita al pane» (© www.cascinapraie.it).

E un po’ li invidio…

l’Agriforneria di Chiesanuova from Massimo Sozzi on Vimeo.

le bollicine delle feste

scritto da il 23 dicembre 2010

Dall’inizio di dicembre e fino all’Epifania si calcola verranno stappate nelle nostre case e nei locali circa 112 milioni di bottiglie nazionali (con Asti DOCG e Prosecco DOC Conegliano Valdobbiadene in testa) e poco più di 5 milioni di importazione (provenienti da Francia e Spagna in particolare), con il 70% del consumo nazionale che si concentra proprio nei 25 giorni che vanno dai primi giorni di dicembre fino all’Epifania.

Ma quanti tappi salteranno proprio in occasione delle festività? Secondo un’indagine condotta dalla Cia, Confederazione italiana agricoltori, nel nostro Paese, tra Natale, Capodanno e l’Epifania, saranno circa 95 milioni, con un aumento del 2,5% rispetto al 2009, per una spesa complessiva di circa 900 milioni di euro (il 2% in più nei confronti delle scorse festività). Con una curiosità: oltre 90 milioni dei tappi in questione saranno di sughero, come confermato dai partner della Campagna di promozione del sughero in Italia, una campagna che tende a sottolineare come il tappo di sughero sia ideale per mantenere intatto il gusto e l’aroma del prodotto, e in più sia ignifugo, naturale, riciclabile al 100%, e di diritto faccia parte dei materiali ecosostenibili (laStampa.it).

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i dolci di Natale

scritto da il 21 dicembre 2010

Un elenco che, solo a leggerlo, ti alza la glicemia a 1000!

«Natale è una festa gastronomica, oltre che religiosa. Se in Italia il Presepe strizza l’occhio al panettone, il mix di sacro e goloso investe tutta l’Europa. Tra la Germania e i Paesi dell’ex impero Asburgico la festa è abbinata a prodotti da forno come cornetti alla vaniglia, biscotti all’anice, meringhe, marzapane e stelle alla cannella. I dolci austriaci e tedeschi più classici sono i weihnachtsplatzchen (biscotti alle mandorle) e i christstollen, un impasto di uova e farina cotto al forno con uvetta e frutta candita: un parente del panettone, più compatto e meno soffice, servito spalmato di burro fuso e coperto di zucchero vanigliato.

A Vienna si gusta il kletzenbrot, il pane di pere secche. In Tirolo lo zelten (…), un panforte poco dolce di frutta secca, arancini, cannella, chiodi di garofano e pasta di pane. Pasticceria innaffiata da glühwein, un vin brûlé molto speziato. Il dolce natalizio di Copenaghen è il ris à l’amande, nome rubato ai francesi per un riso e latte con panna e mandorle tritate, innaffiato di sherry. È simile al julgrot, il riso di Natale svedese: cotto con latte, zucchero e cannella, e servito, freddo o caldo, con marmellata. In Danimarca per digerire tutto si beve gløgg, versione superalcolica del vin brûlé, a base di vino rosso, acquavite, cannella, uvetta, chiodi di garofano e mandorle tritate: servito fumante, spesso accompagnato dalle æbleskiver, frittelle con zucchero a velo e marmellata di ribes nero. Al gløgg seguono bicchierini di Aalborg akvavit, una grappa natalizia ad alta gradazione. Serve a mandare giù la tradizionale pasticceria dell’Avvento: kleiner (frittelle di farina, burro, uova e limone), brune kager, (pane con zenzero tagliato a fettine e coperto di noci tritate), pebbernøder, (biscotti rotondi con cannella, zenzero e noce moscata) e folletti di marzapane.

Il pan di zenzero è il dolce di Natale anche in Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Un mese prima delle feste l’impasto viene elaborato sciogliendo zucchero e miele nel burro e amalgamandoli poi con farina, uova, latte, sale, noci schiacciate, bucce di arancia candite, cannella, chiodi di garofano, cardamomo e zenzero. La pasta riposa per quattro settimane prima di essere cotta in forno Ci sono due tipi di pan di zenzero: uno molto speziato trasformato in biscottini che accompagnano la vodka; e un altro in cui abbonda la frutta secca, offerto come dessert. A Varsavia arriva in tavola insieme alla torta di semi di papavero, soffritti nel burro con mandorle, vaniglia, miele, uvetta e bucce di arancia candite, quindi mescolati con latte e tuorli di uovo per ottenere una crema adatta a farcire torte e pasticcini. A Praga il pan di zenzero è invece in compagnia di pernicky (le stelle alla cannella) e vánočka, la treccia di Natale, preparata con farina integrale, uova, burro, latte, lievito di birra, uvetta, mandorla e noce moscata: un cugino del panettone, meno lievitato del dolce milanese ma più dello stollen. D’altronde Milano, Praga e Vienna erano parti dello stesso impero.

A Budapest il dolce della festa è invece il rétech, uno strudel preparato con diverse marmellate, noci e altra frutta secca pestata e, a seconda delle ricette, succo di limone, cannella o rhum.
Il Christmas pudding inglese, parente più complesso del nostro budino, a Dublino diventa un dolce al cucchiaio a base di Guinness, whiskey, frutta secca, uva passa, preparato con due mesi di anticipo e cotto a bagnomaria per sette ore: è servito flambé. Complessa anche la Christmas cake irlandese, glassata torta con frutta secca, whiskey e marzapane. Più semplice la Christmas crumble: la sbrisolona dell’isola verde. In Spagna la Nochebuena (vigilia) si festeggia in famiglia mangiando torrone, marzapane e polvorones (dolcetti di burro e farina)» (di Marco Moretti).

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arance!

scritto da il 7 dicembre 2010

Tra le cose belle dell’inverno, oltre a Natale e alla neve, ci sono le arance!

«Una storia, quella della coltivazione della pianta dell’arancio, che prende il via dalla Cina per poi giungere dalle nostre parti grazie all’importazione dei marinai portoghesi, tanto che ancor oggi è diffuso un po’ in ogni dialetto italiano l’uso del termine “portogalli” (nelle varie varianti: dal “purtuallo” campano ai “portugaj” piemontesi). Ma si parla anche di una sua diffusione in epoca anteriore in Sicilia, con le piante giunte lungo la via della seta.
È l’agrume più diffuso nel mondo, con centinaia di varietà coltivate, con frutti a polpa bionda (naveline, bionde comuni) o a polpa rossa (tarocco, sanguinello), da mangiare o succosi da spremere. In Italia, che stando alle statistiche FAOSTAT relative al 2008 si attesta all’ottavo posto mondiale per quantità di arance prodotte, con circa due milioni e mezzo di tonnellate, si coltivano circa una ventina di varietà da tavola e altrettante da spremuta.

In Sicilia si concentrano anche due delle tre varietà tutelate con marchio IGP o DOP. Sono l’Arancia Rossa di Sicilia IGP, nelle sue varietà tarocco, moro e sanguinello, coltivata nel catanese, nella provincia di Enna, nel ragusano e nel siracusano, dal colore della polpa più o meno rosso e dal sapore dolce, e l’Arancia di Ribera DOP, coltivata nella provincia di Agrigento e a Chiusa Sclafani in provincia di Palermo, nelle varietà brasiliana, Washington Navel e navelina. La buccia dell’Arancia di Ribera è di colore arancio chiaro, mentre la polpa è uniformemente arancione e fornisce una quantità abbondante di succo. In Puglia si trova quindi la zona di produzione dell’Arancia del Gargano IGP, unica eccezione ad una regola che non vuole agrumi sulle coste adriatiche. Un luogo tutto speciale per gli agrumi, quello del promontorio del Gargano, dove si trova anche uno dei Presìdi Slow Food, e dove gli agrumi maturano praticamente lungo tutto il corso dell’anno. A Natale si raccolgono le arance Durette, ad aprile-maggio le arance Bionde, ma si possono mangiare fresche fino a settembre. In questa zona si trova anche il melangolo, termine che solitamente indica le arance amare in generale, ma che in questo caso si riferisce a un’arancia di pezzatura medio-piccola, dal colore rosso intenso e lucente e dalla buccia molto sottile, con succo tendente al dolce» (di F. Benincasa).

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cibo, umore & serotonina

scritto da il 6 dicembre 2010

L’inverno vi mette tristezza? Il buio delle cinque vi grava sulla giornata come un macigno?

Per tenervi alto il morale, dovete fare attenzione a ciò che mangiate!

“Mood food”: lo chiamano cibo per l’umore; come una manciata di mandorle per prima colazione, un filetto di salmone a cena o una tazza di latte caldo prima di andare a dormire.

«Per capire come funziona la faccenda, serve qualche rudimento di biochimica. In sostanza, il cervello comunica tramite sostanze chimiche, i neurotrasmettitori, che passano da un neurone all’altro e la cui natura dipende strettamente dal cibo che ingeriamo. In particolare uno di essi, la serotonina, che sovrintende all’umore, viene innescata da un aminoacido detto triptofano. Dunque per sentirsi meglio può servire assumere una maggiore quantità di alimenti che il triptofano contengono: cioè banane, cioccolato, latte e latticini. Ma anche semi di sesamo e di girasole. Quanto al salmone, come qualunque pesce grasso che viva in acque particolarmente fredde, contiene vitamina B12 e ottime dosi di omega3: sostanze che, sul lungo periodo, combattono la depressione. E questo è soltanto uno dei modi in cui possiamo influenzare il nostro umore a tavola. Meccanismi che spesso si ritrovano in antiche abitudini alimentari: non sapevamo perché, ma lo facevamo già» (di E. Santolini).

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menù da ammalato

scritto da il 1 dicembre 2010

«canederli di spinaci al burro fuso, gnocchi di polenta al pomodoro, minestra di orzo o di patate, strudel al formaggio, insalata di ceci, filetto di trota al forno, spezzatino di vitello, strudel, burro ed yogurt locali (Mila)»: non è il menù servito in una tipica stube altoatesina, ma quello che propone l’Ospedale di Bolzano!

E a ricordarvelo, «con ogni menu vi viene servita una tabella che elenca le proprietà nutrizionali di quello che state mangiando: calorie, grassi, colesterolo, proteine, fibre, amido» (laStampa.it).

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bollito misto

scritto da il 15 novembre 2010

E’ da un po’ che non mangiamo il bollito. E forse non ho mai mangiato quello tradizionale con i 7 tagli accompagnati da 7 salsine. Anche se, addirittura, mi pare di ricordare che i tagli possono arrivare a 14: sette principali più sette minori.

Il bollito piemontese: «è carne, servita in sette tagli classici: testina, lingua, scaramella, muscolo, punta di petto, cotechino e gallina. Pezzi poveri che sanno esaltare come niente altro – neanche la cruda tagliata al coltello – il gusto della razza piemontese. Il pentolone da cui tutto emerge – compreso il brodo che va servito durante il rito del bollito come fos-se un momento chiave se un della stessa cerimonia – è il punto di partenza.

Una lunga cottura che rispetti la carne, poi un taglio attento che porti nel piatto pezzi non maltrattati dal coltello, ma ben riconoscibili perché ognuno deve vivere di vita propria. E poi le salse, in origine sette anche quelle: il «bagnetto verde» è onnipresente, ormai quasi tutti lo propongono con o senza aglio; il “bagnetto rosso”; la “cugnà” (con uva dolcetto, mele, pere, fichi e frutta secca); la mostarda ereditata dal “lesso” di tradizione padana; la salsa delle api (a base di miele) e il cren ovvero il rafano. E poi non resta che mangiare»(LaStampa.it).

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Arriva l’estate, arriva il caldo (speriamo!), cosa c’è di meglio che una bella birra fresca?

Provate Birra Castello, nata nel 1997: è la prima birra senza una storia.

“E’ meglio non avere una storia che averne una noiosa”: così si presenta la Birra Castello… Anche se in realtà una storia c’è: nell’800, un incontro molto ravvicinato, in un piccolo sperduto villaggio, tra gli abitanti dello stesso e strane creature provenienti dallo spazio…

(per far partire il video basta passarci sopra con il mouse)

Birra Castello ha lanciato il concorso: “Stappa e sfoglia“. In palio cento abbonamenti a “La Gazzetta dello Sport”.

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scritto da il 19 marzo 2010

Grazie a Federica, che è anche la proprietaria delle foto, abbiamo preparato:

– sfogliatelle ai carciofi
– caponatina di fine inverno

– orecchiette al sugo di pescatrice

– spezzatino con peperoni rossi e lime
– gratin di carote

Abbiamo ricevuto (e mangiato!) i pasticcini dell’Antica Pasticceria Pan Belmonte.

E abbiamo abbinato:

– Erbaluce di Caluso 2008 Fiordighiaccio – Cooperativa Produttori Erbaluce di Caluso

– Champagne Joseph Perrier 1996 Cuvée Royale

– Alto Adige Terlaner Sauvignon 2007 Winkl – Cantina di Terlano

– Vallée d’Aoste Chambave Moscato Passito 2007 – La Crotta di Vegneron

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