da Repubblica.it del 3 aprile 2006

La donna, funzionaria della biblioteca e pubblicista, aveva dato notizia sul suo sito di un indagine a carico di due professori

Palermo, licenziata dall’Università Quell’articolo non piace al rettore

OGGI Francesca Patanè verrà licenziata dall’Università di Palermo. Il Magnifico rettore, i professori (ordinari e straordinari), i dirigenti tutti sentono che è venuto meno il rapporto perché la donna, che è funzionaria di biblioteca, si è resa responsabile di “comportamenti che pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro”. Stamane alle nove e trenta dovrà presentarsi a Palazzo Steri del capoluogo siciliano, che è luogo davvero idoneo, il posto giusto, storico teatro dei Processi dell’Inquisizione, e difendersi, se le riesce, dall’accusa di aver denigrato e offeso i rappresentanti più conosciuti e apprezzati e con loro tutto il Palazzo.

E cosa ha combinato questa funzionaria? Ha per caso dato fuoco ai libri? Li ha trafugati di notte? Se li è venduti al mercatino di Porta Portese? No, la Patanè ha scritto nel numero di gennaio sul giornale on line (www.ateneopalermitano.it) di cui è responsabile (ha il tesserino verde dei giornalisti pubblicisti) che due professori palermitani, Salvatore Tudisca, preside della facoltà di Agraria, e Antonio Bacarella, ordinario di Economia agroalimentare della stessa facoltà, erano indagati a Firenze per associazione a delinquere e abuso di ufficio. I magistrati, è scritto sul sito, li accusano di aver “pilotato concorsi per l’assegnazione di incarichi di insegnamento universitario”.

Da mesi l’università italiana passa più tempo nelle aule dei tribunali che nei centri di ricerca, e da mesi i giornali danno conto di accuse, processi, concorsi truccati, alcuni bene altri male, con prove di taroccamenti intercettati in imperdibili conversazioni telefoniche preparatorie. Le cronache riportano casi di mogli e mariti e figli, fratelli fidanzate, cognate, segretarie, amiche e amanti che d’un botto ottengono straordinari scatti di carriera, promozioni folgoranti, riconoscimenti davvero strabilianti. Curricula bellissimi, infallibili. In una parola: eccellentissimi. Bari, Messina, Roma, Firenze, Siena. Sembra quasi che non esista ateneo e non esista concorso che non fatichi a superare le prove del più blando degli esami antidoping.

E la vicenda dei due docenti palermitani s’innesta nella più generale attività di indagine e di inchiesta. Per i professori in questione è relativa all’accusa di aver favorito la vittoria a un posto di ricercatore di Economia agraria del dottor Nicola Marinelli, figlio del rettore dell’Ateneo fiorentino. Questione e fascicolo poi dirottati al tribunale di Trieste che indaga sul fatto da più tempo e per primo.

E benché non ci fosse davvero nulla di nuovo sotto il cielo, benché nessuna notizia sia risultata falsa, l’ateneo palermitano ha deciso di bacchettare la sua funzionaria, e di farle passare la voglia di scrivere. Domanda lecita: ma una dipendente dell’Università può scrivere sull’università? Certo che sì. Può scrivere, eccome se può. I giornalisti sono divisi dall’Ordine in due albi: i professionisti, che dal lavoro di redattori ricevono la fonte principale ed esclusiva di reddito, ed i pubblicisti, impegnati in altre attività ma che con continuità redigono articoli, commenti, illustrazioni sui temi più vari che afferiscono ai più diversi interessi di ciascuno. Del resto la carta stampata, le televisioni, le radio sono dense delle presenze, scritte e parlate, di decine di professori. Molti dei quali sono commentatori autorevoli, riconosciuti e riveriti.

Alla Patanè piace scrivere di Università. E l’Università non l’accusa, a leggere la smilza raccomandata dell’8 marzo scorso (prot. 4822) di aver divulgato segreti d’ufficio, non le contesta di utilizzare impropriamente la sede pubblica per attivare e sostenere interessi privati. No, stende questo rimprovero: l’articolo in questione è diffamatorio. A cui fa seguire la seguente improvvisa ma definitiva deduzione: “l’attività svolta dalla S. V. si ritiene incompatibile con lo status di pubblico dipendente”.

Onestissima e adamantina, l’università palermitana per tutelare il suo onore caccia via, con procedimento d’urgenza, la dipendente che ha la bocca troppo aperta e passa troppo tempo davanti al computer. Non deve, e tutto sommato, nemmeno può. Licenziamento, sanzione massima, così impara.

a.caporale