ciao Michael!

Scritto da il 23 ottobre 2006

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tratto da EMANUELA AUDISIO su Repubblica Sport (23 ottobre 2006)
Gli addii cambiano, fanno sentire di più: guidi sul bordo del nulla, ma dietro c’è ancora tutto. Schumi se ne va, con una rimonta rabbiosa e inutile, dopo una foratura. Ha comunque volato, ma senza arrivare primo. Ha vinto e guadagnato molto, sette titoli mondiali, seicento milioni di euro. Lascia a quasi 38 anni, stanco dei giri, del chiasso, del troppo vento.
Adesso che finalmente aveva imparato: a sorridere, a parlare un po’ l’italiano, a non avere paura delle lacrime, a essere più simpatico. Certe morbidezze del cuore sono curve improbabili in pista. Schumacher è stato il pilota perfetto, molta tecnica, poche rabbie da smaltire: un front runner. Guida magnifica in testa, meglio se senza traffico. E all’ultimo la capacità di risalire in quarta posizione partendo da dietro. Nessuna noia da primato, c’è chi si stanca a stare davanti, Schumi invece si è sempre divertito a vincere.
Mantenere, consolidare, primeggiare, questi i suoi infiniti. Non è mai stato un bullo da sgommate in via Emilia, nemmeno un vitellone da Formula Uno, anzi Michael era il primo della classe antipatico. Il tedesco che sa essere freddo quando comanda, che si accontenta di se stesso, della sua normalità Troppo crucco, all’inizio per il popolo sentimentale della Ferrari. Un’equazione razionale, che l’Italia ancora innamorata di Villeneuve, non mandava giù. Un pilota, che con il fratello Ralf, corre ad Imola nel giorno della morte della madre perché il lavoro va onorato e il pubblico rispettato. E il dolore è privato, non merce che va sul podio.Corpo, concentrazione, equilibrio. Pochi incidenti, uno solo pericoloso nel ’99. Nessuno sballo tra cervello e mani sul volante, mai uno spazio per parcheggiare la testa. Troppo tecnologico, per il paese con il mito del sorpasso. E troppo riservato e fedele, per la mentalità latina. Con i primi soldi ha ripianato i debiti del padre, (…) Schumacher, marito forse noioso, ma attento ai desideri della moglie, due figli, un cane, (…)

Shumi, il robot. Senna, il sentimentale. Due modi diversi di guadagnare il record delle pole position. Però alla fine Schumi è cambiato, è diventato più umano, più dolce, più tenero. Si è come illuminato. Sorrideva, faceva battute, ci provava almeno, si buttava con l’italiano, reagiva alle battute. Pareva perfino provare gusto a correre. A questo servono gli addii nello sport, ad attraversare confini, a farsi attraversare il cuore da parte a parte.

L’ultima volta che Michael Johnson, l’uomo che cancellò il record di Mennea, corse i suoi splendidi duecento metri, gli lanciarono la maglietta da Superman, lui la tenne tra le mani, senza indossarla. Come se volesse ricordare che si può anche cambiare il mondo, ma è sulla terra che bisogna vivere. E l’ultimo salto di Carl Lewis, ad Atlanta ’96, perse ogni prepotenza. Lewis era ormai un cigno ingrossato e affaticato, prese una manciata di sabbia dalla buca del lungo, la mise in una bustina di plastica e la portò umilmente a casa. A ricordo che aveva saltato da uomo e non da dio. Ha detto Lewis di quell’ultimo giorno: “E’ bello smettere. E come quando sei laureato e ripensi all’università, sei contento di averla fatta”. Chris Evert, il giorno il cui salutò tutti nell’89, agli Open Usa, il suo torneo, confessò: “Quando sei stata brava non ti accontenti di esserlo un po’ meno”. Dicevano che Schumi non amava lottare, invece alla fine ha combattuto come un pugile. E ha sorpassato, per cercare un posto sul podio. Per non lasciare da perdente.

Questo alla fine è lo sport: è credere che ogni addio è un nuovo inizio. E’ vedere che Schumi prima della gara perde tempo con Pelè che deve consegnarli un premio, che lo insegue e gli urla: “Tu sei il Pelè della Formula Uno”. E il tedesco che si toglie gli occhiali e guarda, divertito, Pelè. Accidenti Schumi, quanta strada insieme per arrivare all’ultimo traguardo.

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