la Resistenza non armata

scritto da il 30 aprile 2007

Volevo presentarvi solo un sunto dell’editoriale di Carlo Gubitosa pubblicato su PeaceLink. Ma rileggendolo mi sono accorto che ogni pezzo era importante: la storia di Paolo Sabbetta e della tenuta agricola, le storie di Resistenza non violenta in Europa, il tentativo di alcuni storici di diffondere queste conoscenze e l’incapacità della politica italiana di valorizzarle. E’ un po’ lungo ma vale la pena leggerlo.

«Contro Hitler a mani nude

di Carlo Gubitosa

Novantacinque anni, fisico minuto e asciutto, occhi lucidi e una storia affascinante da raccontare: Paolo Sabbetta e’ il protagonista di una delle piu’ intense esperienze europee di resistenza non armata e nonviolenta, uno “Schindler italiano” che con un po’ di improvvisazione, una buona dose di coraggio e la collaborazione di 80 famiglie ha sottratto alle rappresaglie naziste un’intera tenuta agricola, salvando bestiame e uomini da razzie e deportazioni.

Nato a Cerignola, Sabbetta studia da agronomo specializzandosi in agricoltura tropicale, e nel settembre 1943 il regime fascista lo spedisce a dirigere la tenuta agricola di Tor Mancina, un Istituto Sperimentale Zootecnico a 27 chilometri da Roma sulla via Salaria, che si estende su una superficie di ben 1.200 ettari destinati a pascolo e a boschi.

Ed e’ proprio qui che la coscienza si ribella. Il 30 maggio ’44, mentre l’occupazione nazista volgeva al termine, Sabbetta riceve un ordine perentorio dall’ufficiale tedesco assegnato alla tenuta: consegnare per l’indomani venti uomini che avrebbero dovuto lasciare Tor Mancina assieme a bestiame razziato. “Il loro destino era ormai segnato – racconta Sabbetta – sarebbero stati deportati nei lager nazisti”. Appena ricevuta la convocazione, i ragazzi si precipitano in massa da Sabbetta. “Verso l’imbrunire entrarono nella mia stanza – ricorda il novantacinquenne pugliese – e mi accorsi che non erano soli, ma accompagnati dai loro genitori. Le larcime versate dalle mamme avrebbero commosso chiunque”.

La soluzione suggerita da Sabbetta e’ semplice ma rischiosa: presentarsi il giorno dopo da solo, con venti certificati medici che fanno partire i nazisti senza bestiame e senza ragazzi. “In quel momento ho pensato che sarei stato fucilato per aver disobbedito agli ordini – ricorda Sabbetta – ma sono uscito miracolosamente salvo da questo azzardo. Ora sono orgoglioso di essere l’unico italiano che ha beffato i nazisti con un pezzo di carta”.

Questo episodio e’ solo il culmine della resistenza non armata di Tor Mancina, iniziata subito dopo l’armistizio con una serie geniale di stratagemmi e sotterfugi per salvare il salvabile. Tutto e’ documentato nei minimi dettagli dallo stesso Sabbetta, che ha trasformato la sua casa in un archivio/museo: in una sala sono esposte fotografie d’epoca, mappe e ritagli di giornale, lo studio contiene un enorme schedario, ma non c’e’ ancora nessuno in grado di raccogliere questa eredita’ che rischia di andare al macero. “Sin dagli anni ’20 – ci racconta Sabbetta – ho conservato l’abitudine di scrivere il mio diario, conservando lettere, documenti, carteggi, note , appunti, fotografie e schizzi dal vero. Dentro questo archivio c’e’ tutta la mia vita”.

Frugando in questo archivio scopriamo che dal settembre ’43 in poi, per ostacolare le razzie degli occupanti nazisti, le famiglie di Tor Mancina, sotto la direzione di Sabbetta, si sono inventate di tutto: maiali “parcheggiati” nelle grotte prossime alla tenuta, latte sottratto alle mucche di notte per nutrire i partigiani alla macchia, attrezzi di laboratorio murati in una stanza d’angolo, masserizie e indumenti murati nel caseificio, centinaia di quintali di grano, avena, patate, fagioli e granturco nascosti sottoterra o nei silos dell’ovile, olio e formaggi sotterrati, murati o dati in custodia alle famiglie dei dipendenti dell’azienda, finimenti, selle, coperte, libri e registri nascosti nei modi piu’ vari e impensati. E poi troviamo ancora pezzi di ricambio di trattori e automezzi, carburatori, magneti, cingoli e ruote murati in un vano sotterraneo del caseificio, tre trattori agricoli, un motofurgoncino, un camion e due auto resi inutilizzabili, migliaia di capi di bestiame salvati dalle razzie.

A tutto questo si aggiunge l’accoglienza ricevuta nella tenuta di Tor Mancina da alleati, partigiani, militari italiani sbandati e renitenti alla leva ospitati sotto false generalita’ dal personale dell’azienda agricola, che divideva con loro le gia’ scarse razioni delle “tessere annonarie”.

“Durante i mesi dell’occupazione nazista la massima autorita’ era un ufficiale tedesco, e noi siamo riusciti a fargliela sotto il naso. – ricorda Sabbetta con un sorriso di soddisfazione – Sarebbe bastata anche una parola di troppo sfuggita ad uno dei bambini della tenuta: se si fossero accorti delle nostre attivita’ di sabotaggio e dei prodotti murati le conseguenze sarebbero state gravissime, e noi eravamo tutti consapevoli di vivere continuamente con il rischio di retate, deportazioni e fucilazioni. Per me c’e’ piu’ eroismo in questo che nella lotta armata, ma queste esperienze non sono mai state riconosciute ufficialmente”.

Quello di Tor Mancina non e’ un caso isolato: molti altri episodi analoghi dimostrano che i gruppi armati di resistenza sono stati solamente la punta dell’iceberg di un movimento popolare formato da tanti italiani che, attraverso la non collaborazione e il sostegno ai perseguitati, hanno creato un contesto senza il quale la nostra liberazione sarebbe stata impossibile.

C’è chi ha rischiato la vita ospitando per mesi gli ebrei braccati, chi l’8 settembre 1944 ha svuotato l’armadio di famiglia degli abiti da uomo, per consentire ai militari in fuga dalle caserme di disfarsi della divisa con cui sarebbero stati arrestati, chi ebbe il coraggio di scioperare quando lo sciopero era ancora illegale e punito con il licenziamento e l’arresto.

Anche nel resto d’Europa migliaia di persone hanno combattuto il nazismo senza armi. Quando i tedeschi occuparono la Norvegia le scuole, le chiese e i lavoratori nei sindacati sostennero una tenace resistenza nonviolenta. Per reagire alla riforma nazista della scuola, nel 1941 gli insegnanti fecero un grande sciopero, sostenuti da genitori e scolari e dalle chiese. Le scuole ufficiali che avrebbero dovuto seguire i programmi nazisti rimasero chiuse nonostante le pressioni, e fu sviluppato un sistema parallelo di istruzione con il supporto dei genitori, che inondarono il ministero dell’Istruzione con lettere di protesta. Milletrecento insegnanti furono arrestati e inviati ai lavori forzati nei campi di concentramento nel freddo Nord del Paese. Centinaia di essi furono torturati, ma pochissimi cedettero. Così, tra maggio e ottobre del 1942, gli arrestati furono rilasciati e nell’autunno le scuole riaprirono senza i programmi nazisti.

In Danimarca, all”ordine di scrivere “Jude” (ebreo) sulle vetrine dei negozi risposero tutti i negozianti (e non solo gli ebrei), rendendo di fatto indistinguibili i negozi perche’ tutti avevano la stessa scritta. Quando gli ebrei presenti in Danimarca furono costretti a portare la stella gialla come distintivo, il re di Danimarca, Cristiano X, per protesta decise di indossare in pubblico la stella di Davide, seguito da tutta la popolazione. Grazie a questa forma di tutela collettiva non armata furono pochissimi gli ebrei danesi deportati nei campi di concentramento.

Ma oggi la memoria della resistenza non armata rischia di andare perduta: “mentre gli adulti sono quasi indifferenti a questi temi – ci spiega Paolo Sabbetta – i ragazzi che incontro nelle scuole mi hanno sempre dimostrato un interesse vivissimo. Purtroppo l’unico modo di far entrare in contatto i piu’ giovani con la resistenza nonviolenta e’ la mia testimonianza orale. Nessun libro di storia ne parla, e io sono l’unico sopravvissuto di quella esperienza. Dopo di me nessuno ne parlera’ piu’, verra’ tutto sepolto. E’ questo il mio cruccio piu’ grande”.

Tuttavia c’e’ chi cerca di preservare questa memoria scrivendo una storia diversa da quella “ufficiale”, piena solo di battaglie e spostamenti di truppe, una storia che metta in luce il ruolo svolto dalle popolazioni disarmate nella liberazione da tirannie e regimi oppressivi.

Tra questi c’e’ il professor Alessandro Marescotti, insegnante di lettere e presidente dell’associazione “PeaceLink”, che ha realizzato assieme al figlio adolescente Daniele una “Storia della pace e dei diritti umani” liberamente scaricabile su internet all’indirizzo www.peacelink.it. “Il mio lavoro – spiega Marescotti – fa parte di quella corrente, definita di ‘storia sociale’, che si sforza di dare diritto di parola non solo ai sovrani, ai regnanti o ai potenti di turno ma anche alla gente comune, con le sue sofferenze e aspirazioni. La grande maggioranza degli storici – continua il professore – ha visto nella nonviolenza una concezione morale astratta e incapace di basarsi su mezzi concreti. E’ ora di aggiungere alla storia nuovi posti di osservazione, per scoprire che la nonviolenza non è stata una ritirata vigliacca di fronte ai violenti, ma un continuo sacrificio che a differenza della guerra ha aiutato anche gli avversari nella ricerca di un futuro e di un’esistenza più umana”.

Anche Enrico Peyretti, tra i piu’ noti storici italiani della nonviolenza, e’ convinto che questi argomenti siano stati relegati a torto nel limbo delle utopie velleitarie. “La difesa e liberazione senza guerra
è possibile – afferma con decisione Peyretti -. Questa possibilità, anche se fosse minima, è altamente preziosa. Infatti, con la difesa militare un esercito vince, uno perde, due popoli soffrono e probabilmente perdono entrambi: il risultato è a somma zero, se non negativa. Con la difesa non armata c’è la possibilità di risultato a somma positiva: un guadagno in termini globali per entrambi. Questa possibilita’ e’ ancora tutta da scoprire – conclude Peyretti -. Infatti solo in pochissimi casi (che sono i grandi esempi di successo) la difesa non armata è stata usata con una preparazione morale e un addestramento pratico”.

Nel 1996 le istituzioni hanno preso atto dell’esperienza di Tor Mancina, e in quell’anno Sabbetta riceve da Scalfaro l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al merito della Repubblica”. Da quel momento inizia una battaglia personale contro la burocrazia perche’ lo stesso riconoscimento venga assegnato anche a tutti gli altri protagonisti della resistenza nonviolenta di Tor Mancina, le famiglie che hanno sfidato rappresaglie e decimazioni per aver disobbedito alle autorita’ naziste.

Ma dal Quirinale arriva un messaggio perentorio: “il Presidente Scalfaro comprende i sentimenti che ispirano il desiderio di ottenere uno speciale riconoscimento per l’eroico comportamento di tante generose famiglie. Purtroppo le attuali norme di legge non prevedono una simile distinzione”.

In conseguenza delle “norme di legge”, quindi, l’unica onorificenza ricevuta dai resistenti non armati di Tor Mancina rimane l’enorme cartellone esposto nella sala-museo della casa di Sabbetta, dove i visitatori scorrono i pannelli appesi ai muri per scoprire i nomi di ottanta eroi sconosciuti e dimenticati. Come Ernesto Amici, che anche sotto i bombardamenti ha contribuito all’occultamento di grano e avena, Riccardo Giunta, che ha rischiato la vita per salvare dalle razzie due auto, un camion, un motofurgone e tre trattori, Vincenso Passacantilli, capo dei vaccari mungitori, che ha distribuito latte ai militari alla macchia, occultando armi e derrate agricole.

Oggi Paolo Sabbetta vive a Foggia, e a dispetto dei suoi 95 anni e’ ancora attivo e sempre pronto ad accogliere con un sorriso nella sua casa chiunque voglia raccogliere la sua testimonianza. Ha gravissimi problemi di vista, e vorrebbe una indennita’ di accompagnamento, una pensione di invalidita’ o qualunque altra forma di assistenza per avere accanto una persona che lo sostenga nel suo lavoro di memoria della resistenza nonviolenta, leggendo documenti e aiutandolo nella corrispondenza.

Sabbetta sogna che lo status di partigiano sia riconosciuto anche a chi ha praticato, e non solo a Tor Mancina, forme di resistenza non armata, mentre ora questa qualifica e’ riservata per legge solo a chi ha tenuto in mano il fucile per almeno tre mesi. “Anche noi abbiamo portato il nostro mattone per la costruzione dell’edificio della Repubblica – racconta – ma nessuno vuole riconoscerlo. Io mi battero’ fino alla fine per ottenere un riconoscimento ufficiale della Repubblica per le 80 famiglie di Tor Mancina”. Magari in Parlamento qualcuno vorra’ fargli un bel regalo per il suo centenario.»